Angelo Ventimiglia. I multiformi significati di una riflessione sulle monete
Mario Verre
Arte e denaro hanno sempre viaggiato insieme: in questa sede però non affronteremo questo legame interessandoci del rapporto tra committenza ed artista, dell’arte intesa come fonte di investimento, del problema della determinazione dei prezzi delle opere o delle fluttuazioni delle quotazioni degli artisti, ma ne discuteremo polarizzando la nostra attenzione sull’esperienza creativa di Angelo Ventimiglia (Castrovillari, 1984), impegnato in una riflessione sul denaro, tema che fa parte di un percorso che molti artisti hanno intrapreso nella loro ricerca. Una delle opere in cui il denaro riveste un ruolo importante è la seconda versione della Danae, realizzata da Tiziano nel 1553 e ubicata al Museo del Prado di Madrid. L’artista raffigura Giove che, per accorrere in aiuto di Danae, si trasforma in una pioggia d’oro, e una serva che raccoglie avidamente le monete; l’opera è intimamente mossa dal contrasto coloristico ed etico tra la pelle diafana di Danae, disinteressata ai beni materiali, e quella scura e ruvida dell’avida anziana. Tra il 1907 e il 1908 Gustav Klimt riproporrà una sensuale Danae, costruendo una composizione incentrata a favore di uno sviluppo ellittico. Marcel Duchamp nel 1919 pagò il dentista con un assegno disegnato perfettamente da lui, quindi fittizio, il Chèque Tzank, e saldando così un debito di 115 dollari. Anni dopo l’artista chiese al dentista di ridargli l’assegno falso che nel frattempo valeva molto più del valore riportato sopra. Nel 1961 Piero Manzoni realizzò la Merda d’artista, il cui valore era legato alla quotazione corrente dell’oro e alle sue oscillazioni. Oggi l’opera di Manzoni vale più di 100 volte l’equivalente in grammi dell’oro. Negli anni Sessanta del Novecento Andy Warhol, esprimendo lo spirito consumistico della società americana, animata dallo spasmodico desiderio di ascesa sociale, dipinse su grandi tele il simbolo del dollaro e la banconota americana. L’apoteosi della celebrazione del denaro per l’artista statunitense coincide con 192 One Dollar Bills, un’opera che raffigura 192 banconote da un dollaro. Più recentemente Cesare Pietroiusti, sottolineando le capacità demiurgiche e magiche dell’artista di convertire la materia comune in opera d’arte, in alcune performance mangia le banconote, le defeca, le ricompone e le consegna al collezionista, mentre in altre chiede ai presenti di consegnargliene una, in modo da “trasformarla” con acido solforico; successivamente l’artista la consegna al proprietario, corredata da un certificato di autenticità.
Il binomio arte-denaro, che contraddistingue l’indagine di Ventimiglia, si inscrive in un’area di ricerca così ampia da far risultare la summenzionata lista di artisti puramente esemplificativa. La produzione di Ventimiglia si articola in 2 filoni principali: le opere sul tema della monetazione magno greca e quelle sulla lira. Per gli antichi greci le monete erano l’unica forma d’arte riproducibile su larga scala, mentre tutte le altre opere erano uniche e non riproducibili tecnicamente. Molte monete erano veri e propri manufatti di valore artistico che, circolando, diffondevano modelli artistici e culturali. Spesso la loro esecuzione veniva affidata a valenti artisti, di chiara fama, che firmavano le loro opere. Le immagini impresse sulla fronte e sul retro alludevano a istituzioni del tempo, usavano simboli ed allegorie. Nelle piccole superfici imposte dalle monete gli artisti si occupavano di problemi spaziali, di prospettiva, di scorcio, della costruzione armonica della composizione, dell’articolazione dei molteplici piani, del realismo dei particolari e dell’organicità delle forme. Ventimiglia è attratto dai valori formali di queste monete e dal loro alto livello artistico, ma anche dalla civiltà che le ha prodotte e dal suo sistema di valori. Ventimiglia è anche affascinato dalle origini magno greche della Calabria. Sin da piccolo l’artista manifesta interessi artistici, suggestionato dalle immagini sacre di devozione popolare presenti nelle iconostasi, nelle icone e nelle pitture murali in stile bizantino delle chiese di Plataci, grazioso borgo dell’alto jonio cosentino, in cui vivevano i nonni e in cui Ventimiglia trascorreva molto tempo, e sollecita la sua manualità raddrizzando chiodi di antica fabbricazione. Stimolato anche dalle fascinazioni provenienti dagli scavi archeologici di Sibari, in cui ha lavorato, l’artista incentra parte della sua ricerca visiva sulle iconografie caratterizzanti la pittura vascolare e le antiche monete della Magna Grecia. Ventimiglia rivisita in termini personali queste immagini antiche attraverso la tecnica della lavorazione a sbalzo di lastre metalliche che tratta “a freddo” con chiodi simili a quelli presenti nei vecchi portoni; vengono così prodotti medaglioni con figure a rilievo. Il campo visivo del quadro viene successivamente interessato da ulteriori tracce figurative in cui in alcuni casi confluiscono particolari, spunti, linee e forme desunte dal tema presente nel medaglione, mentre in altri lavori, suggestioni provenienti dall’inconscio o da memorie d’infanzia, come nelle opere in cui compaiono veri e propri lembi di panni piegati che rimandano a quelli usati dalla nonna dell’artista per custodire il pane appena sfornato: il cibo donato alla famiglia diventa metafora dell’arte donata alla comunità. Il pensiero che muove queste opere è la convinzione che esista un fil rouge tra usi, costumi e abitudini moderni e quelli magno greci: basti pensare a titolo d’esempio alla notevole cura riservata oggi al corpo umano, così come accadeva in quei tempi antichi. Questo ciclo di opere, se da una parte esprime il forte senso di appartenenza dell’artista e della società moderna alla civiltà magno greca, dall’altra appare mestamente velato dalla consapevolezza di un passato tanto glorioso quanto irripetibile.
Le opere sul tema della lira invece, se da un lato invitano a una riflessione attenta e meditata su un marcatore identitario distintivo della nostra storia nazionale, dall’altra sono collegate a ricordi di infanzia, ad esperienze di vita vissuta, cioè a quando i nonni regalavano all’artista alcune di queste monete. In questi lavori dedicati alla lira, segno rilevante della storia della cultura materiale italiana, Ventimiglia riprende alcune iconografie di questa moneta attraverso la consueta tecnica della lavorazione a sbalzo di lastre metalliche, battute principalmente sul fronte. L’artista usa chiodi trovati in portoni antichi e non quelli moderni perché questi ultimi bucano più facilmente la lamina. Alcuni d’essi hanno la doppia punta; tutti vengono accuratamente selezionati in modo che l’immagine sulla lastra sia il più possibile definita. Alcune delle iconografie della lira riprese in questa serie di lavori sono le seguenti: l’immagine con una spiga di grano dalla moneta delle 2 lire del 1946; il ramo d’ulivo, dono della dea Atena agli ateniesi, dalla moneta di 10 lire del 1947; un uomo che regge in mano una spiga di grano sopra la quale compare la scritta “Italia” dalla moneta delle 20 lire del 1921; una donna che presenta nell’acconciatura una spiga di grano dalla moneta di una lira del 1946. E’ da rilevare come la figura della spiga di grano, ricorrente nelle summenzionate iconografie, compaia anche in Metapontion del 2019, in un’ottica di derivazioni di riferimenti culturali, a cui Ventimiglia guarda con consapevolezza e su cui lavora con coerenza. Così come con Sybaris l’artista aveva condotto una ricerca sull’immagine della prima moneta emessa in Magna Grecia, egli prosegue un’indagine su certi prototipi visivi con l’immagine della lira Tron, la prima emessa in Italia, per volontà del doge, ritratto sul dritto, Nicolò Tron nel 1472 (sul verso compare un leone dentro una corona, rappresentazione simbolica di San Marco). Un’altra moneta che esercita fascino sull’artista è quella delle 500 lire del 1961, coniata per l’anniversario del centenario dall’unità d’Italia: qui Ventimiglia riprende l’immagine, presente sul verso, della quadriga con cavalli che corrono tra la scritta “1961” e “1861” e quella, presente sul dritto, di una figura di donna, allegoria dell’Italia, seduta su di un capitello ionico che con la mano sinistra regge un elmo al fianco e con la destra porge un ramoscello d’ulivo. Il colore in questi lavori si presenta sotto forma di striature e si fa molto materico e denso per la volontà dell’artista di combattere i limiti fisici imposti dalla tela. Il quadro diventa racconto e accoglie immagini della storia nazionale della lira così come tracce figurative connesse a esperienze di vita segnate dalla presenza di tale moneta. L’artista utilizza altresì in queste opere come una sorta di firma, al fine di ribadire la sua identità culturale, l’immagine del giglio, pianta che proviene dalla penisola balcanica. Ventimiglia infatti ha origini arbereshe, ma è anche molto legato a tale fiore che cresce spontaneo sul suo Pollino. L’artista inoltre considera il giglio al pari degli antichi greci e romani che lo associavano ad Era-Giunone. Mentre allattava Ercole, la dea del matrimonio perse due gocce di latte; da una di queste si originò appunto il giglio, a cui veniva attribuito il significato di fedeltà e procreazione. La rotondità delle monete richiama alla mente dell’artista il circolo terrestre e la sua connaturata fecondità: così come la Terra offre nutrimento agli esseri viventi, la moneta, se da una parte per l’uomo è un mezzo del potere d’acquisto materiale, dall’altra è simbolo di un patrimonio artistico e culturale che, “messo in valore”, può generare ricchezza economica. I medaglioni in cui compaiono le immagini delle monete sono spesso circondati da fili culminanti in un’appendice, in una sorta di cordone ombelicale, a indicare come la Terra si proietti verso l’esterno, ne abbia bisogno e dipenda in parte da elementi appunto esterni per garantire la vita dei suoi abitanti. Ventimiglia conferisce alle iconografie della lira nuova vita rinnovandone la dignità artistica e sottolineandone la perentoria, severa e intramontabile bellezza; l’artista riflette quindi, nel ventennale della dismessa della lira, sulla caratura estetica e sul valore identitario di questo simbolo della cultura materiale italiana.
Un discorso a parte merita Risurrezioni. Con questa opera l’artista si propone di raccontare il legame sottile ma prezioso che annoda gli ultimi sette secoli di storia catanzarese all’arte della seta. L’installazione si compone di tre parti che, nel ricapitolare le fasi più importanti del ciclo vitale del baco da seta, richiamano altresì alla memoria l’immagine orografica dei tre colli sui quali sorge Catanzaro. Risurrezioni racconta l’operosa fatica del bruco, la sua inconsapevole maestria, il suo ineluttabile destino. Nella prima parte dell’opera, ove è rappresentata l’immagine della larva, ossia lo stadio iniziale di vita del bruco, si adombra la fase primordiale e fondativa della città, nata su un colle per difendersi dagli attacchi dei nemici. La seconda parte è incentrata sul lavorio silenzioso e paziente del bruco, inconsapevole tessitore del filo ambrato; questo è racchiuso in uno scrigno che l’animale ha tornito con un istinto sapienziale. L’immagine è chiaramente allusiva all’industria della seta, imparata e trasmessa di padre in figlio come eredità irrinunciabile, come patrimonio della collettività catanzarese, segno di ricchezza, vincolo indissolubile con la bellezza. Nella terza parte è simboleggiata la necessaria oblazione del bruco che, prima di trasformarsi in farfalla, viene represso per preservare il lunghissimo filo di seta che ha secreto. Le sue ali non si formeranno mai, il suo volo rimarrà sincopato nel buio del bozzolo. Ma da quella fine cruenta mani sapienti sapranno raccogliere l’eredità preziosa del filato e la farfalla tornerà a volare nei colori della seta stesa al vento, tinta e tessuta dall’arte dei catanzaresi, “risorta” ad una vita nuova concepita all’ingegno umano. I vancali, tessuti in seta prodotti a Tiriolo (CZ), generano preziosi involucri e le increspature della seta, posta a spirale sui grandi bozzoli, rievocano gli sbalzi altimetrici dei colli catanzaresi, anticamente ammantati di gelsi, la cui morfologia valse la coniazione del toponimo bizantino kat’ansàri, o katà-antzàrion, cioè “sotto una terrazza montana”, richiamo efficace all’andamento tortuoso delle colline che si stagliano dinanzi ai contrafforti della Sila Piccola. Tre bozzoli da seta, dunque, tre colline storiche, abitacolo di un’arte perduta, di una tradizione apparentemente sfiorita, ma anche tre boccioli di rosa, come il simbolo araldico della nobile Arciconfraternita del Rosario catanzarese, germoglianti sui tre colli cittadini, segno perenne della fede di questo popolo e auspicio di resurrezione certa. Risurrezioni contiene in sé un messaggio di speranza, che si fa ancor più vivo in tempi di pandemia: la sofferenza e la notte del baco non sono altro che stadi della vita, fasi di cambiamento attraverso i quali provare a “tessere” le trame di una nuova esistenza nella certezza di un futuro senza dubbio migliore del presente.
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